Diario norvegese

La Norvegia non si può fotografare

Riserva Naturale di Stabbursnes - Finnmark - Norvegia
Riserva Naturale di Stabbursnes - Finnmark - Norvegia

La Norvegia non si può fotografare

Appunti durante un viaggio nel finnmark: da kistrand a Hamningberg

Premessa

Ebbene sì: la Norvegia non si può fotografare.

No, non è una nuova irragionevole legge introdotta dal parlamento norvegese, e nemmeno la conseguenza di un oscuro, inedito fenomeno magnetico che si abbatte sul Paese: è una banale constatazione. 

Certo del tutto personale e opinabile, ma credo che siano in molti a poterla condividere. Almeno parecchi di quelli che in Norvegia ci sono stati e hanno cercato di immortalarla. 

Chi (ancora) non l’ha visitata si sarà lasciato probabilmente ingannare dagli stupefacenti scatti “norvegesi” che riempiono le riviste di viaggi, le guide turistiche o la diluviale “immagignificenza” di Instagram, di Facebook e di tutte le altre colonie del web: cime e isole che non avresti potuto inventare, fiordi a vertigine e ponti impossibili, nevi e ghiacci da qui all’infinito, spettacolari viste aeree di strade che sembrano costruite sull’acqua, villaggetti deliziosi affacciati sull’oceano che “voglio andare a vivere lì” o le mirabolanti, indicibili, aurore boreali.

Fidatevi: quella non è la Norvegia. Semplicemente perché la Norvegia non si può fotografare!

Questo almeno è ciò che ho scritto nel mio diario nomade del 2015, fissando sulla carta i pensieri di viaggiatore solitario, alla guida di un camper a spasso per il Finnmark, sotto un cielo plumbeo e piovoso. 

Era il 23 settembre, sul finire del mio primo viaggio in Norvegia, dopo più di un mese di vagabondaggi scandinavi.

Ecco la pagina del diario, con le relative foto.

23 settembre

Da Kistrand a Lakselv

Sento ancora addosso i fremiti che il compleanno in solitaria verso l’estremo Nord d’Europa mi ha riservato. 

Penso alla dolce stanchezza, al vento gelido, al frangere delle onde e al brindisi di caffè-termos fatto tra me e me a Knivskjellodden, due giorni fa, su quegli scogli protesi verso il Mar Glaciale Artico. Ci penso e ancora sorrido. 

Negli occhi ho intatti gli splendori che mi sono stati regalati l’indomani, in una giornata luminosa trascorsa scarrettando felice su e giù per la Havøysund.

Questo Nord, così spopolato, così intero e distaccato, così intenso e paziente, mi fa sentire a casa, mi chiama “amico e fratello”. E vorrei restarci ancora.

Ma è tempo di andare a oriente, per curiosare là dove la Norvegia infila i suoi lembi estremi tra Russia e Finlandia. E iniziare la discesa per il lento, ma inevitabile, rientro in Patria.

Mi metto in marcia per le 8 e mezza, lasciando lo spiazzo riparato nei pressi di Kistrand dove ho trascorso la notte.

La luce estiva di ieri ha lasciato il posto a un cielo pesante, gravido d’autunno.  

Il programma di oggi prevede più di 400 chilometri e quindi dovrei evitare troppe distrazioni. Faccio però poche curve prima di lasciarmi tentare da quello che vedo sulla mia sinistra. Trovato un varco che porta verso il mare, metto la freccia. Spengo il motore in un parcheggio erboso e mi incammino nella riserva naturale Stabbursnes. 

È una prateria di tundra che diventa steppa che diventa spiaggia che diventa laguna che diventa mare, e non capisci come. Qualche uccello, non so da dove, si leva in volo al mio arrivo e sfreccia sopra il pelo dell’acqua bassa. Pochi centimetri sotto, sul fondo melmoso, migliaia di organismi, che non vedo, tradiscono la loro presenza con piccoli vulcani di terra liquida e bollicine affioranti. A regnare sovrana è però l’immobile indolenza di un arcipelago di grandi sassi e massi sparpagliati come biglie, a perdita d’occhio, su quel velo d’acqua. 

Tento ipotesi su come siano finiti lì, mentre li inquadro nel mirino e li osservo nel monitor della macchina fotografica.

Dell'in-fotografabilità della Norvegia

Ecco, appunto: fotografare.

Mentre assecondo la costa, che mescola roccia e terra ed erba e acqua, o mentre viaggio tra montagne smussate e scure, dove si arrampicano tutti i gialli delle betulle, con i miei scatti cerco di catturare gli innumerevoli, sorprendenti colori che si nascondo ovunque. Tra i sassi – che sono neri e viola e gialli e verdi o d’ogni grigio che sai inventare – e sopra i muschi, tra i licheni o nei bazar di bacche e micropiante di cui non puoi nemmeno contare le forme. 

Ma è tutto inutile: è un catalogo infinito e sempre vuoto.

È la conferma di un sospetto, una convinzione, una scoperta che si è fatta strada nel corso del viaggio.

Questo Paese è talmente spettacolare e scenografico che è davvero facile fotografarlo: puoi anche puntare la macchina a caso e scattare a occhi chiusi per fare una “bella foto”. Chi ci sa fare, il professionista, qui riuscirà a fare foto magnifiche, sontuose, “awesome!”. 

Eppure, paradossalmente, la Norvegia è un paese in-fotografabile. 

La maestosità dei suoi paesaggi, la definizione delle sue luci, le relazioni e le “risonanze” tra i diversi elementi di ogni ambiente e di ogni panorama, non riescono mai ad entrare in una foto. Non c’è grandangolo che li contenga, non c’è cornice o prospettiva o taglio che non sia irrimediabile menomazione. 

Se altrove “l’occhio fotografico”, l’inquadratura, la particolare luce, l’isolamento di un dettaglio, riescono a far emerge una bellezza che altrimenti si perde, che sfugge e, a volte, addirittura che non c’è, in Norvegia è vero il contrario: la bellezza che vedi, evidente e manifesta, così intera e così “costante” non la ritrovi nelle foto che hai scattato. Per quanto “bella”, una foto non riesce a catturare quella bellezza pur così plateale.

Un assunto che sembra essere vero sia nel “grande” che nel “piccolo”. 

Gli spazi ampi sono troppo grandi per la ristrettezza dell’inquadratura; i dettagli sono troppo piccoli e troppo numerosi per non confondersi o perdersi dentro la cornice. La zoommata spinta non aiuta, perché di nuovo isola, segrega, perde le risonanze tra gli elementi.

Insomma, non c’è verso d’imbrigliare quell’ordinaria perfezione e compiutezza che ti circonda indifferente, mentre tu sgrani gli occhi e respiri natura. Non lo posso verificare, ma sospetto che anche l’occhio “globale” di una foto sferica fallisca nell’impresa.

Eppure, pur consapevole di questa trappola, non riesco a smettere di fotografare. Per me non è una questione di bellezza ma di memoria. E non rinuncio a quel “fotografato” che mi aiuterà a ricordare e a rivivere “l’in-fotografabile” di questo viaggio e di questo Paese.

Faccio così scorta di sassetti multicolore, sfumature di foglie, arcobaleni di licheni e microcosmi di eriche e mirtillo, mentre mi avvicino all’obiettivo del giorno: la mia ultima “strada turistica nazionale”, la Varanger Turistvegen che porta a Hamningberg.

Da Lakselv ad Hamningberg

Tutta la Norvegia settentrionale ti regala chilometri di viaggio fatti senza incontrare automobili o case, ma in questa parte di Paese la presenza umana è ancora più rarefatta. 

Dopo la sosta a Stabbursnes e una fermata nel paesotto di Lakselv per una piccola spesa, faccio 40 chilometri di morbide curve panoramiche lungo la deserta strada costiera, prima di incontrare il villaggio di Børselv.  

Poi ne servono altri 80, nell’interno, fatti di lievi saliscendi – tra betulle nane, specchi d’acqua e un “niente” color roccia, erba secca e graminacea – prima di arrivare a Ifjord, dove si trova la stazione di servizio, fuori servizio.

Nel mezzo, poche sparute case, che non mettono insieme un cartello, e l’abitato di Kunes che almeno un cartello lo merita. Da Ifjord ne faccio altri 40 di montagna segata per farci passare la strada, prima di arrivare a Torhop e rivedere porte e finestre, e altri 20 per ritrovare i tratti di un paese a Rustefjelbma, insieme con l’agognata stazione di servizio.

In cielo continua a scorrere, pigra e testarda, la brumosa coperta di nuvole, ma solo a tratti scendono goccioloni solitari o spruzzi di nebbia grassa. Mentre mi affianco al fiume Tana, in direzione dell’omonima cittadina, s’alza addirittura qualche lembo e si mostrano spicchi d’azzurro. Ne approfitto per una sosta e qualche scatto nel letto sabbioso del fiume. 

Intanto la densità urbana è andata aumentando e mentre mi avvicino a Tana, anche il fiume s’addensa: lo attraverso sul Tana Bru, il ponte che mi apre le porte della Penisola di Varanger. 

A Varangerbotn infilo la E75, la vagheggiata Strada turistica che, ne sono certo, mi riserverà – come le altre strade turistiche che ho avuto la fortuna di percorrere – panoramiche sorprese.  

In effetti le sorprese non mancano ma non sono poi così gradite. 

Nuvole sempre più buie e una pioggia variamente battente mi danno il benvenuto fin da subito. 

Superato Nesseby, dopo aver fatto una sosta per sbirciare la piccola Riserva naturale – che ingloba una chiesetta e una struttura per l’essiccazione del pesce – un blocco stradale mi tiene fermo per più di mezz’ora. Un camion ha interpretato male la curva e ha spalmato la fiancata sulla parete di roccia. 

Quando riaprono la circolazione è già al crepuscolo e mancano ancora 150 chilometri alla destinazione. Supero le luci di Vadsø, Ekkerøy, Skallelv mentre il panorama si fa sempre più notevole, ma anche meno visibile. Nel frattempo ha smesso di piovere. 

Quando giungo all’altezza di Vardø è ormai buio completo ed è lì che lascio la E75 per imboccare la Fv341, ultimo tratto della Varanger Turistvegen. 

Copro i restanti 25 chilometri in un’oscurità ferita solo dai fendenti dei miei fari, lungo una stradina che via via si stringe fino a diventare poco più larga del camper e che trova improbabili passaggi tra le rocce aguzze e le onde del mare di Barents. Per aiutarmi a mantenere “la rotta”, come per “vedere” qualcosa di più, tengo aperti i finestrini: sento il rumore di un mare agitato e incasso i colpi di un vento severo ma non crudele.

Tutto mi sembra bellissimo.

Quando arrivo a Hamningberg, un antico villaggio di pescatori ormai abbandonato, ritrovo la luce di qualche lampione acceso. Mi sistemo in un bel parcheggio di sassetti, posto a qualche centinaia di metri dall’abitato, vicino a una chiesetta con relativo cimitero. 

Nel parcheggio sono l’unico ospite e da lì, mentre sistemo il camper e ceno, riesco a distinguere una ventina di edifici. Non scorgo movimento alcuno e conto su una sola mano le luci accese dietro alle finestre.

Intanto le nuvole scure si sono fatte più rade e aprono varchi alle stelle. 

Quando decido di uscire per giocare con le pose lunghe, il teatro della notte mi regala ancora un atto di aurora boreale.

Sì, la Norvegia non la puoi fotografare, ma non puoi nemmeno smettere di fotografare tutto quello che continuamente ti regala.

Note

Per un inquadramento del percorso in un contesto più generale, vedi l’articolo Le mie 4 Norvegie in 444 suggerimenti

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